Lo storico Vincenzo Cuoco riconobbe in un personaggio sannita di nome Licinio, l'importatore della coltura olearia nell'area venafrana. Durante un immaginario viaggio filosofico e archeologico nell'Italia meridionale, fa scrivere così da Clobulo a Platone: "Voi greci credete che l'ulivo non prosperi a quaranta miglia dal mare; tempo fa lo credevamo anche noi; e gli abitanti delle Mainardi e della Maiella erano costretti a comprar l'olio dagli abitanti delle terre vicine al mare. Il mio amico Licinio ha voluto introdurre l'ulivo nella sua patria. Egli era cittadino di Venafro. Dopo lunghe ricerche, fra le tante specie di questa pianta, ne ha trovata finalmente una capace di sostenere il freddo delle paterne montagne; e l'olio di questo ulivo non cede all'olio dei Salentini e dei Tarantini".
Nel II secolo a.C., Marco Porcio Catone, che possedeva una villa rustica con oliveti a Venafro, suggeriva nel De Agricoltura, CXLVI, di applicare il metodo applicato a Venafro per la vendita del frutto pendente ("Oleam pendentem hac lege venire oportet. Olea pendens in fundo Venafri venibit…" ). Si stabiliscono con essa precise norme per la vendita delle olive e il relativo prezzo d’acquisto. Da essa si desume che a Venafro si producevano l’olio verde, l’olio romano e le olive cascola.
Orazio descriveva Venafro ammantata dagli ulivi (“Ille terrarum mihi praeter omnes, angulus ridet ubi non Hymetto mella decedunt, viridique certat Bacca Venafro” - Quell'angolo di mondo a me più di ogni altro sorride, dove il miele non cede il passo a quello dell'Imetto e l'ulivo gareggia con quello della verde bacca di Venafro - Odes et epodes, II, 6, vv.13/16).
Secondo il Presta l'aggettivo verde è riferito da Orazio alle qualità dell'olio: l’oleum viride o semionfancino prodotto a Taranto e Venafro. Colummella, a tal proposito, nel De Re Rustica, invita i produttori di olio a dar comando di raccogliere la Licinia e la Sergia, quando le drupe iniziano ad invaiare, avendo valutato questo come il momento di raccolta ottimale per produrre l’Oleum viride.
E' opinione comune che l'area venafrana fu una delle prime regioni a coltivare l'albero ritenuto sacro dagli Ateniesi e introdotto dalla Campania fino al Lazio in tempi remoti, sebbene, secondo Plinio, l'olivo sia stato assente dall'Italia prima del 581 a.C.
La coltura olearia raggiunse livelli intensivi ed estensivi tali, da rendere Venafro famosa in tutto il mondo romano.
Quod far comparem campano, quod triticum appulo, quod oleum venafrano? (Quale farro potrei paragonare con quello campano, quale frumento con quello pugliese, quale olio con quello venafrano?) proclamava Marco Terenzio Varrone (De re rustica libro 3, 1,2), e Marco Valerio Marziale scriveva : “Hoc tibi sudabit bacca Venafri...” (Quest' olio per te stillò l' oliva di Venafro campana - Epigrammaton, XIII, 101), apprezzandone le qualità dell'olio di Venafro nella preparazione degli unguenti: unguentum quoties sumis et istud olet"; "Uncto Corduba laetior Venafro / Histra nec minus absoluta testa "XII, 63, vv. 1-2
Ancora Orazio, in una satira considerava stupefacente una salsa di erbe aromatiche e zafferano, solo se condita con olio venafrano.
In un'altra satira, esaltò il sapore di una morena bagnata da un intingolo con olio di Venafro, ricavato dalla prima molitura. (“His mixtum ius est: oleo, quod prima Venafri pressit cella...” la salsa risulta composta di questi ingredienti: di olio che pressò il primo frantoio di Venafro... / “Pressa venafranae quod bacca remissit olivae...“ olio che la pressa di Venafro sprigionò dalla bacca di oliva - drupa , 1.2 - sat. 4/1.2 sat. 8).
Plinio il Vecchio affermava: "Principatum in hoc quoque bono obtinuit orbe maxime agro venafrano, eiusque parte, quae Licinianum fudit oleum unde et Liciniae gloria praecipua olivae” (L'Italia tiene anche per questo prodotto, per l'olio, il primato sopra tutto l'orbe, maggiormente nell'agro venafrano, e in quella contrada che produce l'olio liciniano, dal quale specialmente ha tratto tanta rinomanza l'uliva liciniana). "Unquenta hanc palmam dedere accomodato ipsis odore. Dedit et palatum delicatiorem sententiam. Coetero baccas Liciniae nulla avis appetit" (Plinio, De Oleo, vol. II, XV,1,8, p.513).
Giovenale nella satira su Virrone narrava: “Ipse venafrano piscem perfudit: at hic, qui | pallidus adfertur misero tibi caulis, plebi | lanternam…” (sul pesce Virrone versava olio di Venafro, mentre agli ospiti veniva dato un olio lampante, usato per le lanterne - Satire, I, 5, v.85).
L'Heurgon afferma a ragione, secondo Gennaro Morra, che Virgilio non può non aver pensato a Venafro nel citare l'ulivo ("illa tibi laetis intexet vitibus ulmos | illa ferax oleo est, illam experiere colendo | et facilem pecori et patientem vomeris unci: | talem dives erat Capua." Georgiche, II, vv. 221-225), raro nel territorio campano: "E' piuttosto lì in effetti, tra i 200 e i 600 metri di altitudine, sulle pendici delle colline che si abbassano verso il Volturno superiore e medio, che converrà cercare le olive di Virgilio".
Gli oliveti e l'olio di Venafro erano talmente apprezzati nel bacino del Mediterraneo, che il geografo Strabone, nel I sec. a.C., li cita nella sua descrizione dell'Italia (De Geographia, V, 3, 10).
Giovanni Presta di Gallipoli, il maggiore studioso dell’olivicoltura di Venafro, nella prefazione alla sua "Memoria intorno ai 62 saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle Due Sicilie" (1788), parlando del miglior olio al tempo dei Romani, scriveva: "Si distingueva su ciò Venafro, e quel poco di olio che ivi se ne traeva, iva per lo più riservato ai proprietari degli oliveti, era riservato ai più delicati, ai più schifiltosi, ai più ricchi"."…e non pertanto non troverassi che gli oli nostri siano superati dai Venafrano, ed in ispezialità da quei di Licinia che era l'uliva al cui olio non conoscevano gli antichi il migliore ".
Venafro e i suoi olivi destarono ammirazione in viaggiatori del passato, come l’abate domenicano Serafino Razzi verso la fine del Cinquecento, e l’abate Giovan Battista Pacichelli nel 1685. Nel 1789, visitò Venafro il conte svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins, in un tour nel Regno Borbonico, insieme a studiosi “di cose rustiche” e all’arcivescovo D. G. Capecelatro.
Nel settembre dell’anno 1790, Sir Richard Colt Hoare visita Venafro, partito da Caserta in compagnia di “Don Andrea Paruta e dei signori Philip e George Hachert”. Il 23 maggio 1793 G. M. Galanti, partito da Capua, è a Venafro.
Il maggior prodotto agricolo di Venafro, è stato apprezzato anche da Lorenzo Giustiniani nel 1805, mentre Michele Tenore, illustre botanico napoletano, fu a Venafro nell’estate del 1831; Richard Keppel Craven nel 1837 pubblica il libro “Viaggio attraverso l’Abruzzo e le province settentrionali del Regno Napoletano”, citando Venafro.
Percorrendo più di 3000 chilometri a piedi, Craufund Tait Ramage, nel 1868 visitò quasi l’intero Regno di Napoli, fermandosi ad ammirare i famosi olivi di Venafro. Jean Claude Richard de Saint Non, menziona Venafro “celebre per il suo olio, il migliore di tutta l'Italia”, nella descrizione del Regno di Napoli e Sicilia. La città di Venafro appare povera rispetto al passato, invece, al tedesco E. Paulus W. Kaden nel 1885.
Ancora scrissero di Venafro e i suoi olivi Alfonso Perrella, Berengario Amorosa, Giovanni Sannicola, segretario della “Reale Società Economica di Terra di Lavoro” e Frédéric Jacques Temple, che nel 1943-44 partecipa alla campagna d’Italia con il Corpo di spedizione francese, dedicando agli olivi una struggente poesia.
Tra i cultori della materia, citano gli olivi di Venafro il fiorentino Piero Vettori nel 1594, nel “Trattato delle lodi e della coltivazione degli ulivi”, Cosimo Moschettini da Martano (LE), prendendo spunto dalle ricerche di Giovanni Presta, sulle le varietà Licinia e Rosciola, il cav. Luigi Granata nel 1841, nel suo catechismo agrario e il Marchese Giuseppe Palmieri di Martignano (Le), Ministro del Supremo Consiglio delle Finanze del Regno nel 1789.
Il Marchese di Pietracatella, Consigliere Ministro di Stato del Re, Presidente del Consiglio dei Ministri di Ferdinando IV e Presidente della Reale Accademia delle Scienze di Napoli, cita la magnificenza degli olivi Venafrani, nel 1818.
Nel 1820 Padre Niccola Onorati Columella, professore nella Real Università degli Studi di Napoli, sostenitore dell’agricoltura quale fonte unica della pubblica felicità, nomina l’olio Liciniano tra i prodotti più importanti del Regno. Il sommo botanico Vincenzo Petagna nel suo trattato di classificazione delle piante “Institutiones Botanicae” descriveva nel 1760 a Venafro l’“Ulivo Gaetano”. “L’albero è sempreverde, e sempre in fioritura. L’infiorescenza è a grappoli e nei grappoli si vedono frutti di varia età provenienti da diversi tempi di fioritura; sono esca di tordi”.
L’Olivo gaetano, l’olivo maschio di Venafro, la colonizzazione degli olivi liciniani in Provenza sono altri argomenti tecnici e storici al contempo, che hanno stimolato nel corso dei secoli ampie disquisizioni accademiche. Argomenti, che solo recentemente sono stati finalmente chiariti nella loro essenza, nel libro del Prof. Ferdinando Alterio “La storia dell’olivo. Il cammino di una grande pianta. Venafro cuore del mediterraneo olivicolo”, edito dalla Volturnia edizioni (2011), per conto dell’Ente Parco Regionale dell’Olivo di Venafro.
L’illustre medico venafrano Niccola Pilla, che nel 1811 viene nominato dai francesi redattore-statistico nella stesura dell’inchiesta “La statistica del Regno di Napoli”, voluta da Re Gioacchino Murat, fu il primo classificatore delle varietà locali venafrane.
La notevole estensione dell'area coltivata ad olivo si era conservata fino alla fine del secolo scorso, come traspare nella accurata Monografia fisica - economica - morale di Venafro del 1877, scritta del Primicerio Francesco Lucenteforte : "A piè della montagna sinnalza al nord - ovest della valle, giace Venafro , la quale domina la sottoposta pianura. Un forestiere, che per la prima volta vi giunge, non può non restare ammirato al bel panorama che allo sguardo gli si presenta. Egli vede due selve di robusti ulivi, che a dritta ed a sinistra della Città verdeggiano lussuriosi lunghesso le falde del monte dal villaggio di Ceppagna a Pozzilli, per l'estensione di oltre a nove chilometri su due; osserva ben' ordinati orti ed abbondanti acque, che, dopo aver dato la mossa a diversi mulini discendono a formare il grazioso fiume di S. Bartolomeo".
"La leggiadra ed ubertosa pianta dell' olivo vegeta nel suolo venafrano rigogliosa e superba da non perdere molto al paragone con le più alte e robuste querce. Sono ordinarie le piante che hanno nel tronco la circonferenza di metri tre, e proporzionati al tronco hanno i rami principali".
Negli anni trenta del secolo scorso era ancora sviluppata la copertura olivicola:"Gli olivi dell'Agro di Venafro si estendono dal villaggio di Ceppagna, lungo le falde del Monte S. Croce, fino a Pozzilli per circa 6 km di lunghezza e per 1 di larghezza. Ed è perciò che tutto un bosco di olivi circonda per tre lati i fabbricati della Città di Venafro, si da offrire al forestiero uno spettacolo di bellezza e serenità, specie quando tutto questo folto bosco di olivi, sconvolto dal vento, appare allo spettatore quale un magnifico mare d'argento" (L'Olivicoltura in Agro di Venafro e le varietà coltivate - Gennaro Nola, 1936 - Roma).
Ancora notevole era La superficie pedemontana coltivata ad olivo nel 1960 (foto in basso). In alcune aree più basse, è riscontrabile la tipica disposizione degli olivi a "V", detta quinconcia (Quincuncialis ordinum ratio dei latini), che permetteva una migliore esposizione al sole delle piante ed un guadagno di 1,5 piante per ettaro, rispetto alla disposizione a quadrilatero.